Cooperativa Agriarquata, un progetto nato da tre diverse aziende, che hanno unito le loro forze in seguito al terremoto del 2016
29 Novembre 2023
Ci troviamo a Pescara del Tronto, o meglio nell’area dov’è stato ricostruito il paese, dopo essere stato raso al suolo dagli eventi sismici del 2016, a pochi chilometri da Arquata, per scoprire il progetto Agriarquata.
Nel centro del paese ricostruito si trova la cooperativa formata da tre diverse aziende costruita con lo scopo di essere uno degli aggregatori per la rinascita della cittadina e collante per non far scappare i suoi abitanti. Arquata è diventata famosa, oltre al triste episodio del terremoto, poiché nel 1982 Giulio Cocci Grifoni ha riscoperto una vecchia varietà di Pecorino e ha iniziato a propagare le barbatelle, assieme all’ausilio di un noto vivaio.
L’otto marzo 2018, una trentina di anni dopo tale scoperta, è nata Agriarquata, unendo tre diverse aziende sotto lo stesso cappello, per un totale di undici ettari vitati, che si estendono dall’Alta Valle del Tronto tra i Parchi Nazionali dei Monti Sibillini e i Monti della Laga. I protagonisti di questo progetto sono Maurizio Orfei, Piera Pompili e Giacomo Eupizi, in ordine di ettaraggio posseduto, oltre all’enologo Alessandro, già conosciuto nelle vesti di gestore dell’Enoteca Regionale delle Marche a Offida. Piccola precisazione: ad oggi sono presenti tre micro conferitori di Arquata che sostengono il progetto con le loro uve provenienti da vigne storiche a piede franco.
Come anticipato, l’unione degli appezzamenti delle tre aziende forma una superficie di undici ettari, ad un’altitudine che spazia tra i cinquecento e i novecento novanta metri e un sottosuolo caratterizzato da un’importante base di scheletro, con zone più sabbiose e ghiaiose, zone a medio impasto, dove si possono individuare profondità differenti. Le vigne sono quasi tutte giovani, piantate tre anni fa, a parte un vecchio appezzamento appartenuto a Maurizio, piantato assieme al papà tra il 1985 e il 1986. Proprio chiacchierando con Maurizio scopriamo che un tempo qui la viticoltura era un’attività molto diffusa, si racconta che a metà del 1800 si contavano circa novecento ettari vitati, che però è andata sparendo negli anni, per lasciare spazio ad altre colture e agli allevamenti. Il suo ricordo va agli anni settanta, quando da piccolo, ha aiutato il padre ad estirpare la vigna. Il vino che era da sempre presente nei pasti di famiglia è stato per un periodo acquistato, ma, dopo un episodio di un acquisto di scarsa qualità, “trenta quintali di vino che la primavera successiva alla vendemmia erano diventati di un colore verde, rassomigliante al gasolio agricolo, si è deciso di ripiantare una parte di vigneto, ad uso personale”.
La conduzione della vigna è biologica, cercando di effettuare meno trattamenti possibili, a base di rame e zolfo, con l’arricchimento del terreno mediante sovescio, favoriti anche dalle altitudini degli appezzamenti e dall’escursione termica tra giorno e notte, tipica di queste zone.
In cantina si applica la stessa mentalità, con l’utilizzo del solo acciaio al fine di valorizzare le varietà, volendo fare “prodotti di vigneto autentici e non elaborazioni di cantina”. L’ambiente per le vinificazioni è stato creato dietro alla sala ristorante/degustazioni (costruita anche con l’ottica di punto di aggregazione), a cento metri dal Fiume Tronto, dove si trovano solo vasche in acciaio al cui interno avvengono le fermentazioni, con lieviti biologici selezionati e gli affinamenti di tutti i vini.
Tra le varietà piantate non poteva mancare il Pecorino, con cui si producono quattro diversi vini, il Pinot Nero e la vigna più vecchia che racchiude un blend di campo di Montepulciano, Sangiovese e Malvasia Rossa. Oggi le bottiglie prodotte sono circa cinquemila, ma la previsione è quella di arrivare a cinquantamila, ovviamente strutturando al meglio la cantina e conseguentemente la rete commerciale. Nella gamma dei vini Agriarquata troviamo due bollicine a base Pecorino, “Tillia” e “Piccà”, prodotte rispettivamente con Metodo Martinotti e Metodo Ancestrale; due Pecorino fermo, Marche IGT Bianco “Surpicanum” e “Piè di Cava”, Falerio DOC; per finire con un Rosso “Il Torrione” Marche IGT.
Curiosità è che tutti i vini sono chiusi con tappo di sughero, poiché secondo la mentalità dell’enologo Alessandro sono vini che hanno bisogno di respirare, per consentire la più corretta evoluzione, con uno scambio costante con l’esterno.
Per assaggiare alcuni dei vini prodotti ci spostiamo nella sala principale che, oltre ad essere dedicata alle degustazioni, è stata creata per ospitare una trentina di persone per pranzi e cene, con una cucina interna e un forno per la pizza. Partiamo con le bollicine a base di Pecorino. Il primo vino è “Piccà”, un nome rappresentativo del territorio: un tempo questo vino veniva chiamato con questo appellativo poiché, essendo prodotto in cantine casalinghe, le fermentazioni non erano così stabili, controllate e svolte in un’unica volta, ma restava sempre una leggera carbonica in bottiglia. Per questo motivo il Pecorino sembrava leggermente “piccante”, in dialetto “piccà”. Un Metodo Ancestrale che resta più di venti mesi sui propri lieviti e, una volta stappato, fa emergere sentori di un predominante agrume, pesca gialla, mela golden, spunti di lievito, una leggerissima riduzione, per un sorso che ha la parvenza di addentare un frutto croccante, caratterizzato da una buona acidità, freschezza, bolla grossolana ma non invadente, discreta sapidità, beva e non troppa persistenza.
La seconda bolla è “Tillia”, Brut, un Metodo Martinotti 100% Pecorino, che resta circa quattro mesi in autoclave, con uve provenienti da un vigneto esposto a nord. Al naso spicca la pera, con note di mela verde, leggera banana e un pizzico di basilico, per un sorso dall’acidità un po’ meno marcata, bolla più fine, per un vino sempre fresco e di beva, con una discreta sapidità, un maggiore corpo e rotondità. “Tillians” rappresenta l’etimologia volgare del termine “piccante“, ma anche la pianta del tiglio in latino. Numerosi i richiami alla lingua latina, come nel caso del terzo Pecorino, non assaggiato, “Surpicanum”, nome con cui era conosciuta quella che oggi chiamiamo Arquata del Tronto.
Le citazioni latine in termini di viticoltura sono da sempre state protagoniste di questi territori, con i racconti di Plinio il Vecchio, che dimorava presso la frazione Vezzano, il quale racconta nella sua Naturalis Historia dell’usanza locale di aggiungere il vino moscatello agli altri vini, con l’obiettivo di incrementarne la gradazione alcolica, principalmente per resistere al suo trasporto via mare.
Passando al mondo dei vini fermi assaggiamo il Pecorino “Piè di Cava” 2021, dal nome di una frazione di Acquasanta del Tronto, proveniente da vigneti esposti a sud ovest. Anche in questo caso emergono le note fruttate, di pera, tiglio, una punta speziata, leggera salvia, per un vino dal sorso più strutturato, con un buon corpo, moderata acidità, discreta sapidità e mineralità, fresco e più persistente.
Infine un assaggio anche del vino rosso “Il Torrione” 2021, dal nome del torrione di Arquata, una delle pochissime strutture che non sono crollate a causa del terremoto dell’agosto 2016. Un vino ottenuto dal blend di campo del vigneto più vecchio della cooperativa, a base di Montepulciano, Sangiovese e Malvasia Rossa, a piede franco.
Al naso presenta sentori di frutta rossa, frutti di bosco, ciliegia, violetta, senza presentare note terziare, per un vino dalla grande beva, spalla acida, discreta mineralità e sapidità, un tannino che fa capolino e una discreta persistenza.
Tutti gli assaggi sono frutto della vendemmia 2021, credendo in vini da evoluzione e non di immediata beva; i vini prodotti nel 2022 sono ancora in affinamento in acciaio, mentre nel 2023 il raccolto è stato perso quasi al 100% e non ci sarà alcuna produzione.
In attesa di scoprire l’evoluzione di Agriarquata e di assaggiare un Pinot Nero marchigiano di montagna maglietta numero 296 per Alessandro e Maurizio!