Un fine serata assieme a Massimiliano d’Addario per approfondire l’azienda che porta il nome della mamma Marina Palusci, tra olio e vino
29 Agosto 2023
Un incontro con Massimiliano Max d’Addario nell’azienda che porta il nome della mamma Marina Palusci, che comincia nel punto cardine di questa realtà, la casa di famiglia a Pianella, in provincia di Pescara. La prima tappa della nostra passeggiata di fine giornata è la “nursery”, da dove comincia tutto il processo di vita delle piante di olivo e delle vigne: uno spazio dedicato alle piccole piantine che vengono innestate in azienda, da una selezione massale di vecchie piante.
Per quanto riguarda gli alberi d’olivo si utilizza per il 90% la talea e un 10% per innesto, mentre per la vite solamente l’innesto su un portainnesto. Curioso vedere, grazie a questa tecnica di autoproduzione, come le piccole piante di ulivo, di circa un anno, hanno già qualche frutto.
Fin da subito si possono capire due aspetti dell’azienda Marina Palusci: la volontà di portare avanti un ciclo vitale autonomo delle piante e che questa realtà è incentrata sulla produzione di olio. L’olio in realtà la fa proprio da padrone e gli ulivi sono diciottomila, suddivisi in quarantotto ettari di terreno.
Tra le principali varietà troviamo: Dritta, Leccio del Corno, Tintorosso, Pendolino, Frantoio, Maurino, dedicate alla produzione sia di monocultivar, sia di oli frutto di blend di diverse olive. Un fascino particolare camminare al tramonto tra queste piante secolari ed incontrare alberi che arrivano alla veneranda età di cinque secoli.
Una pianta di Dritta, tra tutte, colpisce, sia per la sua età di cinquecentocinquant’anni, sia perché è la progenitrice delle piccole piantine che diventeranno gli alberi del futuro.
Questa è definita “Il patrimonio genetico più importante di tutta l’azienda”. Nella proprietà è possibile notare come le piante siano state piantate da generazioni diverse, in una sorta di coesistenza generazionale dove si vede la mano di padre e figlio, che è cominciata con la generazione del bisnonno e nonno di Massimiliano, proseguita da nonno e papà e oggi da papà e dallo stesso Max.
“Noi passiamo, gli ulivi rimangono, dobbiamo prenderli per mano e consegnarli alle future generazioni meglio di come li abbiamo trovati noi”.
Il vino è un aspetto che si è approfondito in seconda battuta, per rendere omaggio a nonno Emauretto, mancato nel 2008. La passione di Massimiliano e i suoi studi in agrotecnica, oltre ai vari corsi indipendenti, lo hanno portato a prendere in mano la produzione del vino in bottiglia, con il ricordo delle lavorazioni del nonno, supportato dal nipote, fin dalla tenera età. Nelle generazioni precedenti la vigna è sempre stata presente, ma le uve coltivate si vendevano a realtà terze, vinificandone solo una parte “ad uso personale”.
Oggi Marina Palusci conta dodici ettari vitati che si estendono principalmente a Pianella, in sei diversi appezzamenti in cui troviamo per lo più uve autoctone, ma non mancano le sperimentazioni come mezzo ettaro di Zibibbo, il Moscato ed altri filari di varietà autoctone di altri territori, per divertirsi a sperimentarne micro-vinificazioni e scoprire i risultati che si possono ottenere.
In un anno segnato dalle perdite causate dalla peronospora, approfondiamo con Massimiliano la sua filosofia di conduzione della vigna che, oltre alla certificazione biologica, ha sposato la biodinamica e il lavoro meno impattante possibile. Alla base di tutto c’è l’osservazione, fondamentale per capire le eventuali necessità della terra e della pianta, per poter aiutare il processo di produzione dell’uva in una situazione di benessere. In un territorio dove la pianura non esiste e il substrato è caratterizzato da argilla, calcare e marna due delle problematiche principali sono il rischio di smottamenti e il compattamento della terra dopo il passaggio con i trattori. Anche per questi motivi, oltre che per arricchire il substrato (pur non essendoci una ricetta e capendo dove è necessario), si lavora a filari alterni, piantando leguminose permanenti, principalmente erba medica. Questa è estremamente utile per ossigenare il terreno, con le sue radici che si estendono fino ai cinque metri sotto terra. Negli altri filari si analizzano le necessità del terreno, orientandosi sulla semina di brassicacee, cereali, leguminose.
Alla base di tutto resta il punto fisso dell’osservazione “se non osservi cosa succede non dai una mano”.
Ogni uliveto e vigneto ha il proprio cumulo di letame e, prima della semina del sovescio, si utilizza anche il preparato biodinamico 500 o corno letame. Una materia prima che viene fornita dal vicino di casa che ha un allevamento di vacche certificato BIO, animali che si nutrono dell’erba medica fornita da Max, così da avere un mutuo scambio. Se non ci fosse stata questa opportunità l’azienda si sarebbe impegnata anche nell’adozione di alcuni capi di bestiame per chiudere un ulteriore ciclo utile per l’ecosistema vigna. Approfondendo i trattamenti troviamo rame, zolfo, caolino, zeolite sia per ulivo che per vigne; in quest’ultima viene adottata anche la bentonite.
Un’altra caratteristica che si nota passeggiando tra le campagne dell’azienda è che ci sono alcune “zone di rispetto”, punti incolti, quasi abbandonati, che sono fondamentali per la salvaguardia degli insetti utili, disturbati dai trattamenti, ma aiutati a ritrovare il proprio ecosistema da queste aree a loro riservate.
Parlando di un po’ di storia troviamo il bisnonno Emanuele che è stato il capostipite della famiglia, staccandosi nel secolo scorso dai latifondisti, acquistando qualche proprietà terriera. Il punto di riferimento di Massimiliano è stato nonno Emauretto, che possedeva circa un ettaro di vigna, di cui ne è stata mantenuta la metà, con la quale faceva una piccola produzione di vino per autoconsumo, come si era soliti fare all’epoca nell’ottica dell’autosostentamento. Papà Emanuele ha iniziato ad espandere gli appezzamenti vitati, piantando ogni anno nuovi vigneti, ma concentrandosi anche nella sua attività principale legata all’allevamento di capi di bestiame quali maiali e vitelloni, come si può evincere dalle strutture che attorniano la casa di famiglia. Oggi, oltre al San Bernardo di due anni “Evo” e qualche decina di gatti non ci sono altri animali.
Gli esperimenti sia in termini di piante e vigneti sia in termini di produzione di bottiglie sono sempre stati un must di Marina Palusci, fino ad uno stop legato alla pandemia del 2020, che ha ridotto anche la produzione di bottiglie in termini di numeriche per anno, passando da circa cinquantamila a poco più di trentamila.
Le bottiglie si dividono in tre linee diverse; “Senza Niente”: Pecorino, Cerasuolo, Montepulciano, con la caratteristica di essere vini da beva, vinificati in acciaio, e l’idea di arrivare a tutti i palati; “Plenus” con quattro etichette tra cui Pecorino, Passerina, Rosato, Montepulciano, che possiamo descrivere come “più estremi” ed infine la linea “Crazy Wines”, che fa incontrare la mano e la filosofia di Max con quella di altri produttori amici, come Maurizio Donati o Andrea Pendin, ma anche alcuni vini sperimentali che possono essere il frutto di micro-vinificazioni o di annate particolari.
L’idea di base nei vini Marina Palusci è il frutto dell’osservazione di Massimiliano che ha negli anni analizzato il trend del consumo del vino e come poter far approcciare il consumatore ai suoi vini, ma anche ad altri vini definiti “naturali”. Con la prima linea si può far avvicinare a questo mondo la maggior parte dei bevitori ed appassionati di vino, essendo prodotti “puliti” e “guidati” nelle vinificazioni, semplicemente da un solo agente amico, il freddo durante le fasi di fermentazione, evitando ogni utilizzo di additivi chimici. Da questa “linea di avvicinamento al vino naturale”, si passa alla linea “Plenus”, dove si apre un mondo legato a vigne vecchie, macerazioni, fermentazioni totalmente spontanee e un gusto non per tutti i palati. Infine con i “Crazy Wines”, buttandola in ridere, “ti bevi gli aceti di Palusci”. Qui entriamo sicuramente in un universo estremo, senza mancare di studio o professionalità, ma con vini frutto di esperimenti di vinificazione, svariati errori, talvolta borderline e magari con qualche piacevole difetto.
Le vinificazioni avvengono in un’azienda terza, nella quale sono state predisposte alcune vasche, nella parte esterna, così da evitare contaminazioni ed avere un’area dedicata. In futuro l’obiettivo è quello di arrivare ad una produzione di settanta/ottanta mila bottiglie che consentirebbe di poter realizzare e sostenere anche una cantina di proprietà. Il sogno è quello di poterla costruire all’interno del Palazzo del Marchese nel centro di Pianella, acquistato dalla famiglia Palusci/d’Addario. Così facendo si riporterebbe un’attività che nel secolo scorso e in quello precedenti erano all’ordine del giorno e la vendemmia era una grande festa. Un’attività tradizionale andata purtroppo a scemare nel corso degli anni a causa di fillosserea, guerre mondiali, industrializzazione.
Per assaggiare i vini Marina Palusci ci trasferiamo a casa di Max, in quello che è denominato “il tavolo delle battaglie” per le centinaia di serate e giornate organizzate con amici e colleghi vignaioli. All’interno della proprietà, circondata da ulivi, si può toccare con mano uno dei nuovi progetti: un agriturismo che comprende due strutture, all’interno delle quali saranno predisposte alcune camere e due suite nelle parti più alte dei caseggiati, aprendo l’azienda al tema dell’ospitalità. Con la stagione 2024 si potrà godere del relax che offre questo posto immerso nella natura.
A farci compagnia il cane Charlie, un pinscher che non ha esaurito le batterie fino al termine della degustazione, tra corse chilometriche e abbai al nulla!
Gli assaggi cominciano con il “Senzamente” Pecorino 2022, un vino definito “non ancora pronto”, che si ottiene da una semplice vinificazione con fermentazione di uve ottenute dalle vigne più giovani, in cui si va a controllare la temperatura e, come anticipa il nome, senza alcun agente chimico esterno aggiunto. Al naso emergono sentori agrumati, di limone, buccia di limone, goccia d’oro, fiori di campo, spunto di fieno ed origano per un palato dall’ottima e fresca beva, sapido, discreta mineralità, spalla acida moderata e non troppa persistenza.
Saltiamo subito ad un rifermentato in bottiglia, il “Doppiabarba” Orange, prodotto in collaborazione con l’amico vignaiolo veneto Maurizio Donati, per la linea “Crazy Wines” ottenuto da un Trebbiano d’Abruzzo base del 2019, fatto rifermentare con l’aggiunta del mosto dell’anno successivo. Al naso note di frutta gialla molto matura, bergamotto, mango, pesca, spunto incensato e un tocco di lavanda. Un vino dalla propria personalità che ha un discreto corpo, ma mantiene freschezza e beva, bolla non invadente, buona acidità, discreta mineralità e sapidità per una moderata lunghezza al palato.
È la volta del Pecorino “Plenus”, annata 2017, ottenuto dalle uve delle piante più vecchie e il mosto che viene ossidato in vasche di rame, tecnica per poter regalare longevità (fino a quindici-vent’anni) ad un vino che non ha solfiti aggiunti. Un’etichetta che riporta il rosone della chiesa di Santa Maria Maggiore di Pianella per un vino dai sentori di cedro, agrume molto maturo, albicocca disidratata, note di miele di castagno, mandorla che al palato entra fresco, minerale e sapido e con una persistenza maggiore rispetto ai precedenti.
Sulla bottiglia di questo vino, come per tutti i vini della linea “Plenus” si può notare la certificazione “SAINS”, associazione francese che accoglie aziende che lavorano “Senza alcuna aggiunta né solfiti aggiunti“. Marina Palusci è l’unica italiana tra le diciotto aziende e l’iter per entrare non è affatto semplice, poiché i membri di SAINS invitano l’azienda richiedente per tre anni ai propri eventi e, oltre al rispetto dello statuto, il vignaiolo e l’azienda deve essere approvato anche in termini di personalità e valore aggiunto che può portare all’interno del gruppo.
Un secondo rifermentato è il “Doppiabarba” Rosso, prodotto sempre con Maurizio Donati, ripercorrendo il suo percorso di rifermentazioni con l’autoctono trevigiano Raboso, questa volta con l’abruzzese Montepulciano. Un vino base del 2019, rifermentato in bottiglia con il mosto dell’anno successivo, che si presenta al naso con sentori di fiori rossi, frutti di bosco, note selvatiche quasi austere che caratterizzano il vitigno, spunto di ciclamino, note terrose e di sottobosco, per un palato con una buona freschezza, buona spalla acida, minerale, dalla bolla non troppo grossolana, ottimo servito freddo e “pericoloso” nei periodi estivi per il suo grado non elevato e la sua beva.
Non potevamo finire con “MILF”, che per i più maliziosi avrà sicuramente un diverso significato, ma per il protagonista di questo progetto la sigla è stata interpretata come “Most I’d Like to Ferment”. Più di due anni di sperimentazioni e di conferimento all’acetaia, per poi riuscire ad ottenere un vino a base di Passerina macerata. Il segreto del successo è stata l’interruzione dei rimontaggi al momento giusto così da consentire alla volatile di alzarsi. Vino dai sentori di pesca molto matura, fieno, note erbacee, limone cotto, pompelmo maturo, salvia, una piacevole e leggera volatile si sente, ma non disturba. In bocca entra piacevole e deciso, con un gusto importante, pieno, sapido, dalla buona beva, più persistente degli altri bianchi e con un tannino velato a chiudere.
I vini sono stati accompagnati da prodotti locali in un tripudio di salumi e formaggi per godere a pieno dell’ospitalità abruzzese. Una serata conclusa con un assaggio della Genziana prodotta da Max, pura e in versione Gen-Tonic! Una serata sicuramente da ripetere, magari trovando riposo nel futuro agriturismo, ma intanto maglietta numero 278 per Max e l’azienda Marina Palusci.