Un pizzico di Corea in Valle d’Aosta grazie ad Andrea di Cave Monaja, il quale si sta occupando di gestire vigneti che altrimenti sarebbero stati abbandonati
19 Novembre 2022
Dopo una conoscenza di più di due anni, iniziata tramite social, finalmente riusciamo ad organizzare un incontro a Cave Monaja, con Chul Kyu Andrea Peloso nella cantina che ha trovato sede all’interno del piano interrato di un ex albergo trasformato in condominio, in località Quart, alle porte di Aosta. Ironicamente Andrea esordisce dicendo che le sue origini, come si può evincere dai tratti del viso, non sono proprio tipicamente valdostane, infatti è nato in Corea ed è stato adottato da una famiglia della Regione quando aveva poco più di un anno.
Il suo percorso di crescita è stato quello di qualsiasi altro giovane della Valle d’Aosta, frequentando, però, le superiori in una scuola molto dura, l’Institut Agricole Régional di Agraria di Aosta, allora gestito dai Canonici del Gran San Bernardo. Un collegio molto rigido dove si aveva l’obbligo di soggiornare all’interno del convitto (anche se Andrea abitava a cinque minuti dall’istituto) e dove ogni parolaccia costava una multa di mille lire. Sveglia presto alla mattina, nessuno spreco, sostenibilità e ritorno alle attenzioni di un tempo hanno creato un imprinting che ha sicuramente segnato il giovane e che ritroveremo nella gestione della sua attività.
Dopo l’università di enologia ad Alba e alcune esperienze di lavoro nella Langhe la voglia di tornare in Valle d’Aosta si è incrociata con la richiesta di un’amica, nel 2016 quando svolgeva l’attività di tecnico enologo per alcune aziende del territorio, di poter gestire la vecchia vigna di suo nonno, di circa quattrocento metri quadri, per mancanza di tempo. Un invito che è stato il primo tassello di un domino che ha aperto nuove opportunità di poter gestire piccoli appezzamenti di persone che non avevano tempo o competenze per portare avanti attività ereditate dai nonni o dai genitori.
In pochi anni Cave Monaja è arrivata a contare a due ettari e tremila metri, dislocati in nove comuni diversi, pur ricevendo continuamente richieste, ma avendo sempre meno opportunità, essendo per la maggior parte del tempo da solo a condurre tutte le attività. Andrea è diventato dapprima una sorta di custode delle vigne, ma con l’espandersi degli ettari vitati ha dovuto anche strutturarsi per poter dare seguito a quella chiusura del cerchio, vinificando le uve ottenute dall’arduo lavoro. “Non ero partito con l’intenzione di creare un’azienda, ma di fare un favore ad un’amica, per mantenere vivo il territorio e prendermi cura di vigneti che altrimenti sarebbero stati abbandonati”. Un modello al contrario, con obiettivi, impostazioni di business e target economici cuciti attorno all’unica risorsa, la vigna preesistente, creando così Cave Monaja, un’azienda che ha trovato la sua struttura fisica a fine 2018 nel piano interrato di un vecchio albergo, trasformato in condominio. All’interno le varie sale sono state adibite a vinificazione, affinamento, magazzino e anche una sala degustazione con tanto di ufficio personale di Andrea.
Nella sala di vinificazione si possono notare principalmente vasche in acciaio, tonneau, barrique e due vasi vinari sperimentali a forma ovale, rispettivamente di cemento e cocciopesto. Il desiderio è quello di lavorare con lieviti indigeni, anche se oggi si utilizzano lieviti selezionati per i vini bianchi e un pied de cuve per i vini rossi.
Qui i gruppi frigo non sono mai stati contemplati, pertanto le temperature non sono controllate e, lavorando con piccole masse, si utilizzano coperte per scaldare le vasche o panni umidi per il raffreddamento.
Parlando dei vigneti si possono identificare dei fattori comuni come la posizione che è generalmente sul versante esposto, con piante dall’età media di diverse decine di anni, coltivate per autoconsumo e per lo più moltiplicate per propaggine, ovvero interrando un tralcio da una pianta “madre” per farlo radicare e generarne una nuova. I vigneti, di media, sono piantati con varietà miste, poiché il concetto di base un tempo era quello di produrre un vino che fosse la sintesi dei pregi e difetti dei differenti vitigni dando una risultante migliore della semplice sommatoria.
Tendenzialmente si trovano vigne a piede franco, che non sono mai state irrigate o concimate, stimolando così l’apparato radicale a raggiungere la profondità, rendendole negli anni sempre più resistenti e legate al concetto di terroir.
La conduzione è guidata dal buon senso, “Mi comporto con la vigna con quella diligenza che appartiene ad un padre di famiglia, pensando che quello che vado a fare è quello che un domani troveranno i miei figli; mi chiedo spesso che cosa avrebbe fatto mio nonno!”. Il nonno di Andrea, Carlo Alessandro Monaja, è stato una figura chiave per la sua formazione, educandolo ad una vita sostenibile, senza sprechi. Un uomo partito dal nulla, arrivato in bicicletta dalla Svizzera all’età di quattordici anni, capace di farsi strada sia nel contesto sociale della Valle d’Aosta.
Si è scelta la strada della certificazione “Viva” (dimostrandosi la prima azienda della Regione a muoversi in questo senso), non per il mero scopo di ottenere un bollino, bensì per offrire un prodotto onesto e trasparente per i consumatori, che possa essere ottenuto da una coltivazione priva di concimi e trattamenti il più ridotti possibili. Un compromesso che porta ad accettare un 5/10% di produzione in meno per anno, a fronte di minori trattementi di rame e zolfo in vigna, frutto di un ragionamento che non vuole avere come risultato una vigna perfetta, ma un’uva il più genuina possibile. A sostituzione o integrazione dei già citati rame e zolfo vengono utilizzati anche oli essenziali di arancia dolce e, al posto degli insetticidi, viene adottata la confusione sessuale. Per essere concreti la media annua dei trattamenti è di quattro/cinque passaggi, limitati a tre nel 2022.
La produzione di bottiglie negli ultimi anni è stata di circa settemila, caratterizzate dall’idea di non voler promuovere un singolo vitigno, ma quella che è l’espressione di un territorio, di un blend che possa essere caratteristico della mano e della filosofia di chi lo produce.
Tra le etichette troviamo la prima prodotta: “Foehn”, nome che proviene dal vento caldo che arriva dall’arco alpino, ottenuto da vigneti autoctoni rossi: 40% Fumin, 30% Petit Rouge e 30% Vin de Nus, oltre a una minima parte di Premetta e Cornalin che si possono trovare sparse tra le vigne. Il suo riposo è di diciotto mesi in tonneau di rovere francese rigenerate, sempre in un’ottica di attenzione alla sostenibilità.
Foehn 2019 esprime sentori di frutti bosco, rosa canina, spezia dolce, note ematiche, caffè, liquirizia oltre ad un leggero sottobosco per un palato intenso, ma fresco, minerale, con una buona parte tannica in chiusura e ricco in persistenza.
Il secondo rosso prodotto, non per importanza ma per nascita nel contesto aziendale: “300” è dedicato ad una vite monumentale di Petit Rouge, datata 1600 e piantata a pergola in un’abitazione di Saint Denis. Gli anziani del posto raccontano che fino agli anni ’50 si arrivava ad ottenere fino a cento litri di vino, anche se poi sembra esser stata danneggiata a causa dello scalcio di un mulo che era attaccato ai pali che la sostengono. L’uva di questa vite monumentale viene lavorata con quelle altre uve provenienti dalle piante più vecchie, dislocate nei vari appezzamenti, vinificate in acciaio per poi proseguire il proprio percorso di affinamento in Barrique per 24 mesi e 12 mesi in bottiglia.
Un sorso di 300, annata 2018 che si esprime con sentori di frutti rossi, viola, note ematiche, di sottobosco, cioccolata, per un palato dal tannino più setoso, più ricco di acidità, minerale e di buona persistenza.
Uno dei bianchi prodotti è lo “Stau”, dedicato ad un vento freddo ascendente, che si percepisce quando si vedono arrivare le nuvole dal versante svizzero. Un 60% Chardonnay che viene unito ad altre uve a bacca bianca autoctone: Malvoisie Des Nus, per la maggior parte, Muscat De Chamballe, Prie Blanc e altre varietà in minima parte. Queste vengono vinificate in diversi tempi, viste le epoche di maturazione, con una vendemmia che avviene in più passaggi e un affinamento per una parte della massa di almeno dodici mesi in barrique.
L’assaggio di Stau 2020 fa incontrare note di frutta matura, spunti tropicali, fiori gialli, note di vaniglia, miele, spezie dolci, per un sorso di corpo, che mantiene comunque una buona acidità, sapidità e mineralità.
I penultimi arrivati sono “Prét a Boire Bianco e Rosso”, frutto della gestione di più vigneti, con un’età più recente e nei quali sono presenti anche piante di varietà internazionali. Un richiamo al prêt-à-porter della moda sartoriale ma quotidiana correlato alla modernità di un prodotto di beva, idea emersa dal grafico fiorentino che segue Cave Monaja.
Il bianco è a base di uve Traminer, Muscat e Malvoisie e viene vinificato in anfora, mentre il rosso a base di Pinot Nero e Syrah, con una vinificazione in cemento, in entrambi i casi con un concetto olistico che viene dato anche dalla forma dei due contenitori, che consentono un moto convettivo e un battonage continuo.
Il Pret Bianco 2021 si presenta al naso con spunti aromatici, che spaziano dalla pesca bianca, albicocca, zagara, gelsomino, una leggera spezia per un palato abbastanza verticale, minerale, sapido, di beva e abbastanza persistente.
L’ultimo nato in casa Cave Monaja è il “Souvenii”, vino ottenuto con le uve di un vigneto dato in custodia da una signora classe 1921, mancata un paio di anni fa. Vigna disastrata di millequattrocento metri, abbandonata per anni, nella quale Andrea ha dedicato quattro anni di lavoro per rimetterla in sesto. Un lavoro immane finalizzato a mantener viva la passione di quella signora e di suo marito che ci avevano messo anima e corpo per quella piccola produzione destinata all’autoconsumo, sia delle uve da vinificare, sia di alberi da frutto come fichi, pesche ed albicocche.
Una storia che si è conclusa tristemente, poiché le nuove generazioni hanno scelto di destinare quel pezzo di terra ereditato a progetti di edilizia, spezzando quel legame affettivo tramandato fino ai giorni nostri.
Vino che vuole essere rappresentativo di quel piccolo appezzamento, con Fumin, Petit Rouge, Vien de Nus e altre varietà che simboleggiano uno di quei classici uvaggi parte della storia viticola della Valle d’Aosta, che viene vinificato in acciaio con macerazione post-fermentativa di un mese a cui segue un affinamento in bottiglia di oltre un anno.
Prima di andare a mangiare qualcosa di tipico valdostano uno sguardo alla neo-nata riserva storica, da arricchire negli anni e ad un angolino dedicato al nuovo progetto: un Metodo Classico con una base importante di uve Malvoisie de Nus, esperimento degli ultimi anni di Andrea, che merita la maglietta 203.