de Tarczal, in compagnia di Ruggero e del cagnolino Spritz per un tuffo nella storia di questa azienda di Marano di Isera
27 Marzo 2022
L’incontro con Ruggero, nella cantina de Tarczal, sentendo il mio marcato accento, si apre immediatamente con la condivisione delle origini, essendo anche lui veneto, di papà padovano e mamma veneziana, di Canareggio.
E un cane che si chiama Spritz, non può che essere un conterraneo!
Si intuisce subito che questa realtà di Marano di Isera nasconde una storia secolare alle spalle, che vede le sue origini nel 1778 quando il conte Francesco Alberti Poja, erede di una famiglia trentina che, nella metà del milleseicento ebbe il privilegio dare i natali ad un principe vescovo nella città di Trento, arrivò in Vallagarina.
La sua eredità nella cittadina di Rovereto ancora oggi è rappresentata dal palazzo Alberti, di fronte al MART e Teatro Zandonai, il primo teatro del Trentino Alto Adige, fatto erigere assieme al notaio dottor Luigi Carpentari de Mittemberg. La storia vuole che all’arrivo in Italia di Ferdinando Primo d’Austria, questo fece interrompere i lavori, trovando la struttura più bella e maestosa di quella che era stata costruita a Vienna; uno stop dettato dall’invidia che fece terminare l’opera qualche anno più tardi.
Tornando all’azienda de Tarczal fu proprio la famiglia Alberti Poja ad iniziarne la costruzione nella conformazione che troviamo oggi e ad essere già attiva nella produzione di vino. A dare lo slancio nella commercializzazione dello sfuso fu il Conte Ruggero Alberti Poja, “da cui ho preso il nome” afferma Ruggero de Tarczal, verso la fine del diciannovesimo secolo e fino all’inizio della prima guerra mondiale.
Prima del conflitto mondiale, iniziò anche la storia dei de Tarczal, con lo sposalizio di Irma, bisnonna di Ruggero e contessa discendente dagli Alberti Poja, con il l’ammiraglio della flotta di Trieste Gèza Dell’Adami de Tarczal. Il loro figlio, nonno di Ruggero, era un colonnello degli Ussari, rinchiuso come prigioniero in Siberia e, dopo sette tentativi di fuga, riuscì a scappare in America tenendo varie conferenze sulla pace. Grazie anche all’egida della Croce Rossa, comprò una nave che portava in salvo i prigionieri ungheresi e, in quegli anni, conobbe la nonna di origini siberiana, imparentata con la famiglia degli Zahr. In un’attraversata del canale di Suez si ruppe la nave e nacque il papà di Ruggero, proprio nelle terre dove sorge in canale. Nel 1921 ci fu il ritorno in Vallagarina e, a cavallo tra le due guerre, ci fu anche il tentativo da parte della famiglia di rilanciare l’attività vitivinicola, ma, avendo perso uno dei principali mercati, quello austriaco, nel quale il Marzemino andava per la maggiore, il tentativo fallì.
Una curiosità scoperta successivamente al conflitto è che durante la prima guerra mondiale il nonno paterno ha combattuto contro il nonno materno, pur essendo sullo stesso territorio, ma di due schieramenti diversi, italiano ed austriaco.
Finita la seconda guerra mondiale gli appezzamenti vitati ripresero ad essere coltivati e, non essendoci più mercato per lo sfuso, le uve venivano conferite alle cantine sociali.
Nel 1972 Ruggero, uscito dal liceo scientifico di Paderno del Grappa, decise di trasferirsi nelle proprietà di famiglia in Trentino e provare a ricominciare quella che era la storica attività legata alla viticoltura, creando negli anni l’azienda de Tarczal per come la vediamo oggi. Oggi protagoniste dell’azienda sono anche due delle tre figlie, poiché la terza vive a Santiago del Cile, la quale, dopo un’esperienza in un’azienda agricola per la produzione di uva, si sta occupando di tutt’altro.
Gli ettari vitati sono diciassette e la produzione è di circa centomila bottiglie, con “tantissime etichette”, dodici in totale. Un tempo in Trentino le proprietà si dividevano, assegnando ai figli maschi i terreni in parti uguali ed è anche per questo motivo che de Tarczal presenta ventidue diversi appezzamenti, compresi tra i duecento e i cinquecentocinquanta metri s.l.m. e, come afferma Ruggero, “i trattori fanno più ore in strada che in campagna”.
Dalle sponde dell’Adige dove il terreno è sabbioso, si sale per trovare una zona a medio impasto, nella quale si nota anche la presenza del vulcanico basalto, fino ad arrivare alla roccia dei terreni più alti e i muretti a secco tipici del territorio. L’azienda non è biologica o biodinamica, ma segue il protocollo della lotta integrata come la Regione vuole, evitando l’utilizzo eccessivo di rame e ritenendo che se si possano evitare trattamenti eccessivi grazie all’aiuto di materie di sintesi.
Gli impianti sono a Guyot, tranne un ettaro e mezzo di Marzemino a pergola, che comunque ha una produzione molto bassa di sessantacinque quintali ettaro, contro la media generale dei novanta quintali ettaro.
Tra le chiacchiere assaggiamo lo Chardonnay, le cui uve provengono da vigne a piede franco piantate in un terreno sabbioso. Affinamento per il 50% del vino in acciaio e 50% in tonneau usato per un 2018 presenta sentori delicati di frutta, pesca bianca, ma anche fiori gialli, ginestra, alcune note tropicali, salvia, un leggero pepe bianco per un palato avvolgente, dalla buona mineralità e sapidità, oltre alla persistenza. Il nome di questo vino è Felix che, oltre al chiaro riferimento all’Austria, vuole essere anche una dedica alla figlia Felicia.
Nel piccolo shop adiacente alla cantina si possono vedere tutte le etichette, definite “troppe” da Ruggero che produce l’azienda partendo da due Marzemini, di cui uno, lo “Husar”, è dedicato al nonno, che faceva parte del corpo degli Ussari, corpo militare di origine ungherese.
A seguire Teroldego, Rosato a base di Schiava e Marzemino, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot Nero, Lagrein, per poi arrivare ad una bolla Trento DOC 100% Chardonnay, Incrocio Manzoni (di cui in commercio c’è l’annata 2016), due Chardonnay, Pinot Bianco, Müller Thurgau, Moscato ed infine due vini che vengono macerati per almeno cinque mesi, vinificati ed affinati in anfora, rispettivamente a base di uve Chardonnay e Marzemino.
Una costante dell’azienda è quella di ritardare il più possibile l’uscita dei vini.
Dopo la scoperta del prodotto finale un breve tour dei principali ambienti nei quali si svolge la produzione, con l’uva che arriva in cantina in cassoni da duecento chili, forati alla base così da non schiacciare i grappoli.
Una delle regole principali che impone Ruggero de Tarczal è l’igiene, volendo che tutti i processi si svolgano in ambienti puliti e ben sanificati, grazie anche all’aiuto di un macchinario mobile che eroga ozono, adottato ormai da diversi anni in cantina.
Nei vari ambienti si trovano principalmente vasche in acciaio, oltre ad alcune anfore, vista la collaborazione con una delle più importanti aziende trentine che produce questi vasi vinari, la Tava Srl.
Scendendo una scalinata si arriva alla barricaia, nella quale riposano in botti grandi da cinquanta e trenta ettolitri, oltre ai tonneau; tutto legno che viene utilizzato per diversi passaggi per non voler impattare sulle caratteristiche del vino.
Tornati al punto di partenza stappiamo un bottiglia di Pinot Nero 2016 il quale fermenta ed affina in legno per almeno un paio di anni, oltre ad un riposo in bottiglia. Dall’annata 2020 si è scelta anche l’anfora come vaso vinario per affinare questo vino. Al naso esce inizialmente timido per poi sprigionare sentori di ciliegia, petali di rosa, marasca, violetta, un leggero tabacco, leggera spezia, per un palato fresco, minerale con una buona acidità, tannino vellutato e buona persistenza.
E tra le chiacchiere sull’incerto futuro, ma con la voglia di acquisire o sostituire alcuni ettari vitati, colgo l’invito di Ruggero per un secondo appuntamento, magari mangiando qualcosa nella vicina trattoria. Un locale gestito sempre in famiglia, principalmente dalle figlie, dove si può godere di una cucina tipica trentina e non, oltre dei vini de Tarczal.
Prima dell’arrivederci, maglietta numero 158 per Ruggero.