Assieme ad Hervé Grosjean, coetaneo ed ultima generazione dell’omonima azienda valdostana fondata dal nonno a fine anni sessanta
18 Novembre 2022
Un pomeriggio in piena fase di imbottigliamento mi porta ad incontrare Hervé Grosjean, nell’omonima azienda fondata dal nonno a fine anni ‘60, battezzandola con il nome di famiglia.
La nostra chiacchierata comincia in quelli che sono gli ambienti principali dell’azienda, con un tour inverso rispetto agli anni di creazione delle varie stanze. Tra il 2015 e il 2016 è stata costruita una barricaia tra la roccia che caratterizza questo territorio, trovando una delle numerose risorgive di acqua che, sia per un motivo estetico sia per un recupero di questa materia è stata lasciata a vista in una delle pareti dello scavo. L’acqua, oltre alla sua funzione di mantenere umido l’ambiente, viene immagazzinata in una grande vasca di recupero ed utilizzata, se necessario, tra le vigne adiacenti.
Oltre alla barricaia l’ampliamento ha visto la creazione di un ambiente per l’imbottigliamento, con tanto di linea e il magazzino, che si sviluppa ad di sotto della montagna e raggiunge i dodici metri sotto terra.
Una breve parentesi energetica per sottolineare il fatto che l’area di stoccaggio dei vini non viene climatizzata, ma si immagazzina l’aria fredda durante l’inverno per garantire una temperatura fresca e costante anche durante l’estate. Si utilizzano i pannelli fotovoltaici, arrivando ad un 120% di produzione nel 2023, e l’energia solare per ottenere l’acqua calda.
Negli anni 2000 è stata edificata la parte più grande di Grosjean, dove ancora oggi sono contenute le vasche in acciaio per vinificazioni e affinamenti ed alcune ulteriori tonneau e barrique.
Il tutto è però partito da una piccolissima cantina, anche questa ottenuta da uno scavo nella roccia, edificata nel 1975 e rivalutata oggi come ambiente di riposo per le due etichette di Metodo Classico, circa diecimila bottiglie.
Hervé tiene a sottolineare che Grosjean è un’azienda “rossista”, vista la produzione di circa il 70% di vini rossi, valorizzando gli autoctoni, ma aggiungendo alla gamma anche Gamay, Syrah, Pinot Nero. Si identificano due linee diverse di vino, rispettivamente BIO e non BIO; i primi sono ottenuti con uve di proprietà e si imbottigliano in bottiglie borgognotte, mentre i secondi sono ottenuti con uve acquistate da conferitori di fiducia limitrofi ai propri vigneti, in questo caso imbottigliati in bordolesi.
Parlando di vigneti, l’azienda possiede sei ettari e duemila metri, il vigneto più grande in tutta la vallata, con una singola proprietà; messo assieme negli anni con un’impresa cominciata nel 1985 (fino all’ultimo appezzamento dello scorso anno) che ha visto l’acquisizione di parcelle da sessantacinque diversi proprietari. Ci troviamo ad una media di seicento metri sul livello del mare e il suo nome è Rovettaz, un toponimo che proviene dal nome della roverella, o rovere, pianta molto diffusa nelle zone boschive e incolte della vallata.
Nell’arco di quattro chilometri, tra i seicento e i novecento metri sul livello del mare, si trovano gli altri circa dodici ettari vitati, che si completano con altri due piccolissimi appezzamenti nella zona di Chambave e Aymavilles.
Il substrato è abbastanza uniforme, lasciato dal ritiro del vecchio ghiacciaio e vede principalmente sassi, sabbia, molto scheletro e qualche tratto limoso. È già stato anticipato che l’azienda è certificata BIO e per quanto riguarda i trattamenti si utilizzano rame e zolfo di miniera, che vengono concentrati in momenti precisi per non essere troppo impattanti. A supportare queste due sostanze troviamo anche estratti di alghe e un estratto di olio d’arancia, dal quale si ottiene un effetto essiccante. La fortuna di questo territorio è quella di essere protetto dalle grandi catene montuose che impediscono alle perturbazioni di sfogare la loro portata, a discapito di regioni più vicine come Liguria o Svizzera.
Le bottiglie prodotte sono di media centoquarantamila, con un’annata record di produzione nel 2021, che è arrivata a centosessantasette mila. Un accenno sulle vinificazioni, le quali avvengono sia in acciaio sia in legno dipendentemente dal vino che si vuole ottenere. Di norma la fermentazione dei vini bianchi viene attivata da lieviti selezionati, mentre per i vini rossi partono spontaneamente o grazie ad un pied de cuve. Tutti i vini svolgono una fermentazione malolattica e si evita di fare travasi nel corso dell’affinamento, se non quello utile per poi andare in bottiglia.
Un salto nella storia per mettere in luce le testimonianze di viticoltura antenate a Grosjean, che si possono ricondurre ad alcuni atti notarili del milletrecento, e più precisamente, nel 1372, con uno scritto che ci riporta traccia di produzione di vino di qualità nella vicina cascina Ollignan. Un territorio da sempre vocato per la produzione di vino con alcuni aneddoti che fanno arrivare al diciottesimo secolo e più precisamente a quando prese fuoco il Castello di Quart, durante una delle tante feste del nobile Henry. Viene riportato in un editto che il fuoco fu spento con l’aiuto di sei/sette mila litri di vino conservato nelle cantine della struttura. Il versante vocato è sempre stato quello a sud, come identificato dal Re di Gressan, nei testi che testimoniano la sua predilezione nel piantare la vigna.
Protagonista di una storia più triste il Castello di Aymaville, dove attecchì la prima pianta di fillossera, per poi propagarsi e far crollare il mondo della viticoltura in tutta la Penisola.
Tornando ad approfondire l’azienda, passati i vari periodi di crisi, nonno Dauphin, classe 1925, di professione garzone (oltre ad essere stato un partigiano) sposò nel 1950 nonna Michelina, che possedeva alcuni appezzamenti di terra. Curiosità sul cognome Grosjean è che quella di Hervé è l’unica famiglia valdostana a portarlo, non sapendone le origini al 100%. Si narra che dopo la peste bubbonica venne emanato un editto dal governante dell’epoca, che invitava, o obbligava, cittadini dell’Alta Savoia e della Svizzera a ripopolare la Regione; così probabilmente uno dei tanti migranti d’Oltralpe iniziò questa stirpe.
Nonno Dauphin trovò un primo lavoro presso una famosa acciaieria, pur mantenendo la passione per la terra e l’agricoltura. Grazie all’incontro con il canonico Joseph Vaudan, fondatore dell’Institut Agricole, il quale prese sotto la sua ala Dauphin, iniziò la produzione di vino, principalmente per consumo personale e per il suocero, che era diventato un ottimo cliente interno. Alla morte di quest’ultimo, ci fu un eccesso di prodotto e si pensò, anche assieme ad altri piccolissimi produttori, di creare una sorta di mercato del vino per vendere quel surplus produttivo. In un paio di weekend d’estate, nel 1969, ad Aosta, vennero esaurite tutte le bottiglie, liberando così il magazzino e monetizzando.
Così si instaurarono le radici aziendali, per poi evolversi con i figli Piergiorgio (padre di Hervè) e Vincent, seguiti negli anni ’90 e 2000 anche dagli altri tre fratelli, creando così la Maison Vigneronne Frères Grosjean. Arriviamo al 2017, quando c’è stato un passaggio generazionale, se vogliamo più repentino di altre realtà, lasciando l’azienda in mano alla nuova generazione di cugini: Hervè, enologo che gestisce l’azienda anche dal punto di vista commerciale; Didier, che si occupa della parte meccanica e dei macchinari; Simon, che gestisce parte dell’estero e gli aspetti documentali; Marco, trattorista ed infine lo zio Eraldo, il più giovane, che si occupa di campagna. Anche il figlio di Eraldo, Andre, sta entrando in azienda, a supporto di Hervè.
Dopo un excursus storico che ci ha fatto arrivare ai giorni nostri iniziamo ad assaggiare i vini, nella sala degustazioni, adiacente alla cantina.
Cominciamo con il “Mas du Jario” 2019, dal nome della vigna da cui vengono ottenute le uve, una bollicina Metodo Classico Extra Brut, con un residuo di quattro grammi di zucchero per litro. Affinamento di circa trenta mesi, per questo nuovo prodotto di Grosjean, che si presenta con sentori di fiori bianchi, spunti agrumati, note mentolate, per un sorso dritto e verticale, ricco in acidità, minerale, sapido, dalla bolla fine e discreta persistenza.
Passiamo ad un bianco fermo, Petit Arvine 2021 il cui 30% affina in barrique per circa nove mesi. Al naso esce la parte aromatica, con note tropicali, di fiori gialli, foglia di té, che si amalgama con le note speziate, di pepe bianco e vaniglia, oltre ad alcuni spunti fumè. In bocca emerge il corpo e la sua morbidezza, bilanciate dalle parti dure, buona acidità, minerale e sapido, sicuramente un vino che può evolvere ed esprimersi al meglio negli anni.
Il mondo dei rossi si apre con l’autoctono Cornalin 2021, varietà che per maturare al meglio necessita di una buona esposizione solare, affinato per nove mesi in barrique usate di quarto/quinto passaggio. Al naso emergono oltre che i piccoli frutti rossi, un tipico sentore di spezia, tabacco dolce e spunti erbacei. Palato delicato con una discreta acidità, minerale, tannino delicato e buona persistenza.
Il colore si fa più carico nel Fumin 2021, vinificato e affinato seguendo un processo simile al precedente, e la frutta rossa si sposta in quella più scura e ai frutti di bosco, mantenendo comunque uno spunto erbaceo. In bocca è più deciso, con un’acidità più moderata, mantiene la mineralità e un tannino più accentuato.
Tutti i vini sono molto freschi e imbottigliati da poco, grazie o a causa della domanda molto elevata che ha fatto esaurire il magazzino. Nel caso del Torrette della linea BIO si deve aspettare il nuovo imbottigliamento, ma intanto assaggiamo quello dell’altra tipologia. Un blend di campo ottenuto da un 70% di Petit Rouge, 15% Cornalin, 10% Fumin e 5% Premetta; uve vinificate assieme ed affinate in barrique di secondo/terzo passaggio per dodici mesi.
Al naso frutti di bosco, viola, rosa rossa, spezie più dolci, per un palato fresco, minerale, abbastanza sapido, dalla buona acidità e tannini molto delicati; sicuramente vino biglietto da visita del territorio.
Con l’augurio di incontrare nuovamente Hervè, per lui maglietta numero 201!