Etna Urban Winery, una neonata cantina a San Gregorio di Catania, dove sorgevano numerose realtà vitivinicole, andate perdute nel tempo
07 Luglio 2022
Giusto il tempo di atterrare all’aeroporto di Catania, per essere prelevato al fine di cominciare questa avventura alla scoperta di alcune cantine etnee; il primo protagonista è Nicola e la cantina è una realtà urbana denominata proprio Etna Urban Winery. Ci troviamo a San Gregorio di Catania a circa trecentocinquanta metri sul livello del mare in un luogo dove, fino agli anni sessanta, sorgevano almeno trenta cantine, che producevano vino sfuso. “Oggi se racconti di essere stato in una cantina in questa zona ti prendono per matto o ti chiedono in che bar ti sei fermato ad ubriacarti”.
Le radici di Etna Urban Winery si possono trovare nel bisnonno del bisnonno di Nicola che nel 1790 ha fondato la prima cantina, la cui attività di produzione è durata fino al secondo dopo guerra, a causa della crisi della viticoltura, della conseguente industrializzazione o rivalutazione dei vigneti ad agrumeti. L’eredità passo in mano al nonno di Nicola e poi a suo padre, a fine anni ’90, il quale restaurò l’antico Palmento, il primo di una lunga serie incontrata in pochi giorni sull’Etna, luogo dove veniva prodotto il vino. Le campagne sono state frammentate e divise tra i vari parenti, i quali, dopo diversi anni si sono ritrovati ed hanno messo sul tavolo l’idea di poter riprendere quell’attività di viticultura, andata perduta nel tempo.
Otto cugini (di primo, secondo, terzo grado) con un’età media inferiore ai cinquant’anni, tutti estremamente entusiasti del progetto, ma con due principali criticità: il fattore economico e la non competenza nel settore enologico. Ad ogni problema ovviamente c’è una soluzione, così nel 2016 la non ancora azienda lanciò un crowdfunding per lanciare il progetto, il quale consisteva nel vendere anticipatamente le bottiglie prima della loro produzione, con una formula di acquisto per i clienti di un cartone all’anno per dieci anni. Un’iniziativa di successo che ha dato la spinta per partire, nel 2018, con la piantumazione del primo mezzo ettaro di Nerello Mascalese e Cappuccio, nell’appezzamento più limitrofo al Palmento. Contemporaneamente c’è stato un processo di formazione da parte di Nicola, che è il volto di rappresentanza dell’azienda e la persona più vicina alla proprietà, abitando nella struttura, oltre all’affiancamento di alcuni esperti consulenti.
Gli ettari negli anni sono triplicati, arrivando oggi ad un ettaro e mezzo, con varietà non ancora in produzione, soprattutto per quanto riguarda le uve a bacca bianca di Carricante e Catarratto. La conduzione è in fase di conversione al biologico e si utilizzano rame e zolfo, oltre al caolino, per combattere l’attacco dei piccioni, che si spostano dalla città per trovare lauti banchetti nelle vicine campagne. Gli impianti sono misti, sia a cordone speronato, nell’appezzamento più grande, sia ad alberello disposto in alcuni terrazzamenti, per riprendere la tradizione etnea.
Il substrato è composto da un terreno lavico formatosi con la “Colata di San Gregorio”, risalente a quindici/diciotto mila anni fa, la quale oggi ha lasciato circa cinque/sette metri di terreno sabbioso dopo i quali si trova la roccia madre.
La prima vendemmia è stata portata a termine nel 2021 con uve vinificate presso una cantina terza, mediante metodi tradizionali, fermentazioni controllate ed affinamento di dieci mesi in solo acciaio. Le prime bottiglie Etna Urban Winery, circa millequattrocento sono state imbottigliate a fine luglio 2022.
Lo scopo di questa realtà è quello di poter far percepire questa zona a sud del vulcano, come una zona vocata per la produzione di vino, riprendendo una tradizione che si è interrotta negli anni scorsi.
Per approfondire quelle che erano le tradizioni dell’epoca uno sguardo all’antico Palmento è d’obbligo. Una struttura che riporta ancora la colorazione del tempo nella sua parte esterna, con il rosso della polvere lavica e il blu, frutto di ossidi di rame, repellente per gli insetti. Sempre nella parte esterna si può notare la doppia scala, così da non intralciare i lavori in entrata e quelli in uscita.
Un percorso dell’uva che cominciava con la pigiatura, passava per la torchiatura grazie ad un torchio manuale con un lungo palo e una “vite senza fine” che permetteva di spremere le vinacce pigiate, fino ad arrivare per gravità, tramite alcune canaline, nelle grandi botti situate in cantina. Proprio nelle botti si possono notare i segni del tempo, dopo l’ultima vendemmia commerciale del 1972, che indicano le quantità di vino prelevato da ogni membro della famiglia. L’unità di misura era la “Quartara”, recipiente da nove litri e mezzo. Ancora ben visibili i nomi del nonno Gianni e dei prozii Totò, Graziella e Carlo. Quest’ultimo conserva ancora qualche bottiglia del 1968, materia rara per quei tempi, acclamandone di tanto in tanto la qualità, una qualità che era dettata dalla gradazione alcolica, di 16,5%, con conseguente maggiore remunerazione del prodotto finale.
Un aneddoto che mi racconta Nicola è quello di bisnonna Agatina, rimasta vedova molto giovane, che era a capo della famiglia e decretava in prima persona il momento della vendemmia, mettendo d’accordo tutti i figli, che talvolta battibeccavano sul grado di maturazione delle uve.
Pur con i trentotto gradi della giornata è d’obbligo uno sguardo alla vigna, cominciando da un piccolo appezzamento non ancora in produzione a pochi metri dal Palmento, per poi spostarci al vigneto più grande, denominato, appunto, Vignagrande, dopo aver costeggiato una parte di bosco che si estende in lunghezza verso valle. A svettare su questa vigna una struttura a forma di cupola tutta di pietra, restaurata qualche anno fa dalla famiglia, per dargli almeno un centinaio di anni di vita in più, essendo in una zona dove i terreni sono estremamente dinamici e ogni anno tendono a scendere verso valle di più di qualche millimetro.
Struttura denominata “Cubba”, dove si può notare il pavimento di cotto, puramente superfluo per una struttura di campagna, ma a simboleggiare la possibilità che aveva la famiglia di poter supervisionare i lavori di campagna dall’alto, in una sorta di pied-à-terre, magari sorseggiando una granita tipica di questa zona, prodotta con la neve dell’Etna, che veniva raccolta nei periodi invernali e conservata tutto l’anno per la produzione di granite.
Per il futuro l’idea di Etna Urban Winery è quella di ampliare gli appezzamenti vitati, per raggiungere un target di cinque o sei ettari, oltre ad investire sul portare le persone nel territorio per fargli vivere l’azienda e quella che è la cultura di produzione attuale e di un tempo.
Ringraziando Nicola, non ci resta che assaggiare i vini quando saranno pronti!